Di seguito la sentenza n. 4984 del 4 marzo 2014 della
Suprema Corte di Cassazione che rigetta il ricorso di un lavoratore licenziato
in seguito ad una contestazione per uso illegittimo di un permesso retribuito ex
legge 104/92 ...
Con il primo motivo, il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione
degli artt. 2, 3 ed 8 I. 300/70, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.,
osservando che il controllo dell’ agenzia investigativa non può riguardare in
nessun caso né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale
di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come
l’adempimento, alla attività lavorativa, che è sottratta alla vigilanza altrui,
ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero
inadempimento dell’obbligazione contrattuale prospettata. Secondo il ricorrente,
appare, quindi, violativo degli artt. 2 e 3 Statuto avere ritenuto legittimi i
pedinamenti che hanno determinato la contestazione disciplinare prodromica al
licenziamento, in quanto certamente non finalizzati a rilevare illeciti a danno
del patrimonio aziendale, attenendo, invece, all’adempimento dell’obbligazione
di fornire la propria prestazione lavorativa a fronte della percezione della
retribuzione. Occorreva che i controlli occulti fossero disposti contro attività
fraudolente o penalmente rilevanti, laddove la Corte del merito aveva introdotto
il tema dell’abuso del diritto che esulava completamente dall’interpretazione
delle norme citate dello Statuto, collegando a tale ipotesi di abuso la
possibilità di controllo difensivo occulto e scardinando la consolidata
acquisizione interpretativa che ritiene legittima tale forma di controllo solo
ove finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale, ovvero alla verifica di
comportamenti delittuosi del lavoratore. Assume il ricorrente che, se
l’esercizio di un diritto potestativo in caso di sviamento della sua propria
funzione può rifluire nell’abuso del diritto stesso, il controllo verte sulle
modalità di esercizio di un diritto, non finalizzato assolutamente a quei soli
scopi che legittimano i controlli occulti. Peraltro, la fattispecie,
diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, non avrebbe integrato
l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, c.p., in assenza di
ogni artificio o raggiro posto in essere dal suo autore.
Con il secondo motivo, il ……… lamenta violazione dell’art. 342 c.p.c. e
del d. Ig.vo 30.6.2003, n. 196, e deduce la nullità della sentenza, ex art. 156
e 161 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, n. 4 c.p.c., rilevando come la Corte
territoriale abbia completamente omesso di considerare la circostanza,
evidenziata dal giudice di primo grado, dell’autorizzazione al trattamento dei
dati sensibili da parte degli investigatori privati laddove l’AMSA non aveva mai
riferito alcunché a proposito dell’esistenza dell’atto di incarico e che ciò
doveva indurre la Corte a dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione ex art.
342 c.p.c.. Ed invero, era richiesta la conformità dell’incarico alle
autorizzazioni del garante, conformità che costituiva presupposto indispensabile
ai fini della legittimità dell’investigazione e della legittimità del controllo
e quindi della contestazione (in tale senso era la pronuncia del Tribunale).
Poiché la inesistenza di un incarico conforme alle disposizioni del Garante non
era controverso, non era invocabile l’art. 360, n. 5, c.p.c., atteso che la
totale mancanza di motivazione sul punto determinava la nullità della sentenza,
deducibile ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c..
Con il terzo motivo, viene dedotta l’insufficienza e contraddittorietà
della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art.
360, n. 5, c.p.c. e la violazione degli artt. 246, 416, 3° comma, 257 c.p.c. e
dei principi in ordine alla testimonianza de relato, assumendo il N. che non vi
sarebbe stata la prova del ragionevole sospetto che avrebbe legittimato il
ricorso ad un controllo occulto, ma che, in base al tenore delle testimonianze
di F. e V., doveva ritenersi che il preteso viaggio fosse proprio quello di cui
al pedinamento e che la fonte fosse stata proprio l’Agenzia Investigativa,
sicché la circostanza della vacanza riferita dal ……. alla persona addetta alla
segreteria costituiva dichiarazione priva di significato univoco, potendo la
vacanza essersi realizzata in giorni estranei al permesso. Aggiunge, quale
ulteriore considerazione a fondamento dell’impugnazione, che neanche sarebbe
dato comprendere, alla luce dei risultati dell’investigazione, in quale data
sarebbe stato effettuato il viaggio in Svizzera al quale si sarebbe riferito il …….. conversando con le segretarie e la ragione per cui il predetto si sia indotto
a confidare proprio alle stesse l’uso improprio del permesso ai sensi della
legge 104. Peraltro, il M., firmatario della contestazione, aveva un interesse
in causa che avrebbe potuto giustificare un suo intervento adesivo, atteso che,
in caso di definitivo accertamento dell'illegittimità del licenziamento, l’AMSA
avrebbe potuto rivalersi su di lui. La mancanza di motivazione
sull’attendibilità del teste, una volta ritenuta la sua capacità a deporre, si
traduceva, poi, in un vizio censurabile ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., ed
anche la F. e la V. non potevano essere considerate testi di riferimento.
Infine, si assume che il G., indicato de relato dal M., rappresentando l’A., non
era persona estranea alla controversia, per cui non era possibile acquisirne la
deposizione.
Con il quarto motivo, il N. deduce la nullità della sentenza ai sensi degli
artt. 156 e 161 c.p.c., ex art. 360 n. 4 c.p.c.) ed ascrive alla decisione
violazione dell’art. 5 L. 604/66 ed omessa motivazione, evidenziandone la totale
assenza con riguardo a fatti controversi e decisivi per il giudizio, tra i quali
l’avere prestato cure alla propria madre in data 11.4.2008, non potendo
ritenersi che non vi sia stata contestazione della veridicità dei fatti
contestati.
Con il quinto motivo, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 1
L. 604/66, 2119 e 2106 c. c. e rileva ancora la nullità della sentenza, ex art.
156 e 161 c.p.c. oltre che l’omissione od insufficienza della motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la contestazione
relativa a fattispecie analoga a quella di abuso di congedo parentale non era in
linea con i principi in materia di proporzionalità del licenziamento
disciplinare ed alla valutazione della condotta secondo i criteri applicativi di
norme elastiche, da condursi con giudizio di valore adeguato al contesto storico
sociale. Assume che il giudizio della Cassazione deve ritenersi esteso alla
sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, con valutazione di un contegno che
nelle finalità del permesso contempli anche l'esigenza dalla persona che assiste
di avere ulteriore occasione di riposo o di stacco e ciò anche nella prospettiva
di un giudizio sulla proporzionalità della sanzione.
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo deve essere disatteso stante quanto ribadito dalla
giurisprudenza di legittimità in ordine alla portata delle disposizioni (artt. 2
e 3 della legge n. 300 del 1970), che delimitano - a tutela della libertà e
dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali -
la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei
propri interessi - e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2)
e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3) -, ma non precludono il potere
dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella
specie, un'agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per
la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare
l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze
specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ.,
direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Ciò non esclude
che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un'agenzia
investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né
l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la
propria opera, essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come l'adempimento,
all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve
limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero
inadempimento dell'obbligazione (cfr. , in tali termini, Cass. 7 giugno 2003, n.
9167). Tale principio è stato ribadito ulteriormente, affermandosi che le dette
agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza
dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto,
direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato
l'intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e
l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o
della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14
febbraio 2011, n. 3590). Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il
divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di
lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche
occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per
tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 10 luglio 2009 n.
16196).
Nel caso considerato il controllo finalizzato all’accertamento
dell’utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 L. 104/92 (suscettibile di
rilevanza anche penale) non ha riguardato l’adempimento della prestazione
lavorativa, essendo stato effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in
fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione
lavorativa. Deve, pertanto, ritenersi che la decisione impugnata sia conforme ai
principi sanciti in materia ed in linea con gli orientamenti giurisprudenziali
richiamati.
Quanto al secondo motivo di ricorso, che evidenzia la nullità della
decisione per avere superato, omettendo ogni motivazione al riguardo, quanto
affermato nel capo della sentenza di primo grado con riguardo alla mancanza di
un atto di incarico conforme alle specifiche autorizzazioni del Garante per la
protezione dei dati personali, occorre considerare che in realtà l’affermazione,
costituendo un mero inciso di motivazione, reso ad abundantiam, non necessitava
di espressa impugnazione, e quand’anche si ritenesse diversamente, la
fattispecie implicava il coinvolgimento di dati personali non sensibili e
chiaramente pertinenti rispetto allo scopo perseguito dalla società che, come
sopra detto, era del tutto rispettoso delle norme dello Statuto poste a tutela
del lavoratore. Non si poneva, pertanto, una questione di acquiescenza ad un
capo di decisione autonomo, idoneo anche da solo a sorreggere la decisione,
sicché l’asserita violazione dell’art. 342 c.p.c. risulta, in definitiva,
destituita di giuridico fondamento.
Il terzo motivo è ugualmente infondato. Nella prima parte della censura si
assume che le circostanze riferite dalle testi F. e V. sarebbero le stesse di
cui all’accertamento investigativo, sicché sostanzialmente non vi era stato il
sospetto ingenerato da circostanze preventivamente acquisite da tali testi, ma
il datore avrebbe affidato il mandato all’agenzia a scopo meramente esplorativo.
La censura mira in tale maniera a sollecitare una non consentita valutazione del
merito, in contrasto con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui il ricorso
per cassazione, con il quale si facciano valere vizi della motivazione della
sentenza, deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle
argomentazioni sulle quali si basano la decisione (o il capo di essa) censurata,
ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la mancanza di coerenza fra le
varie ragioni esposte, e quindi l'assoluta incompatibilità razionale degli
argomenti e l'insanabile contrasto degli stessi, mentre non può farsi valere il
contrasto dell'apprezzamento dei fatti compiuto dal giudice di merito con il
convincimento e con le tesi della parte, poiché, diversamente opinando, il
motivo di ricorso di cui all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. finirebbe per
risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle
valutazioni riservate al giudice di merito (v. tra le altre, Cass. 5 marzo 2007
n. 5066, Cass. 5274/2007 e, precedentemente, Cass. 15693/2004). La seconda parte
della censura verte, invece, sulla ritenuta incapacità a deporre del teste M.,
ma in primo luogo deve rilevarsi che nessun accenno viene fatto ali termini ed
ai modi in cui una tale eccezione era stata tempestivamente sollevata nella fase
del merito. Vero è, poi, che ove la capacità a deporre del teste non possa
essere messa in discussione per non essere stata la relativa questione
tempestivamente sollevata, il giudice del merito non è esonerato dal potere -
dovere di esaminare l'intrinseca attendibilità di detto testimone, specialmente
in caso di contrasto tra le risultanze di prove diverse, e legittimamente può
tener conto dell'interesse del teste all'esito del giudizio, anche là dove tale
interesse non sia formalmente tale da legittimare la sua partecipazione allo
stesso, (cfr. Cass. 18 marzo 2003 n. 3956). Nel caso considerato non si
ravvisano, tuttavia, errori di valutazione idonei a legittimare la censura come
prospettata anche con riguardo al profilo dell’attendibilità delle deposizioni
acquisite, essendo state le testi di riferimento legittimamente escusse sulla
base dell’indicazione di conoscenza dei fatti ad esse attribuita.
Il quarto motivo solleva una critica avulsa dalle risultanze processuali
laddove si contesta l’iter argomentativo in relazione alla circostanza che la
contestazione da parte del ricorrente vi era stata anche con riguardo
all’effettivo verificarsi dei fatti contestati. Ed invero, posta la rilevanza
probatoria attribuibile per quanto sopra detto ai risultati dell’investigazione,
non rilevano circostanze ulteriori riferite alla assistenza comunque prestata
alla madre dal N. prima di partire per il week end, permanendo l’abuso del
diritto connesso all’utilizzo improprio del permesso ex art. 33 L.
104/92.
Ove l'esercizio del diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di
un potere assoluto e imprescindibile, ma presupponga un'autonomia comunque
collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti - come nella specie
- di interessi familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato
e nell'ambito del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, il non esercizio o
l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della
funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto
dall'ordinamento.
L'abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse,
a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di
specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della
buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un
abuso del diritto al permesso si vede privato ingiustamente della prestazione
lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va
valutata in concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre
rileva l'indebita percezione dell'indennità e lo sviamento dell'intervento
assistenziale nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento
economico. In base al descritto criterio della funzione, deve ritenersi
verificato un abuso del diritto potestativo allorché il diritto venga
esercitato, come nella specie, non per l’assistenza al familiare, bensì per
attendere ad altra attività. La condotta del ricorrente si è posta in contrasto
con la finalità della norma su richiamata, e pertanto la sua connotazione di
abuso del diritto e la idoneità, in forza del disvalore sociale alla stessa
attribuibile, a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario correttamente
sono state ritenute dal giudice del gravame capaci di integrare il comportamento
posto dal datore a fondamento della sanzione disciplinare.
Il quinto motivo verte sulla correttezza del giudizio di proporzionalità
espresso dalla Corte territoriale con riguardo alla condotta del N.. In ordine
ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di
una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati
sostanzialmente univoci, affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass., n.
5095 del 2011 e da ultimo ribadito da Cass. 26.4.2012 n. 6498) che, per
stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve
rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto
di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato,
la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata
oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati
commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la
proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione
dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di
lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione
disciplinare. È stato, altresì, precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il
giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso
- istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella
valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione
al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al
riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere
valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa
importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima
sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero
addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del
rapporto (art. 2119 c.c.).
In tema di ambito dell'apprezzamento riservato al giudice del merito, è
stato condivisibilmente affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e,
da ultimo Cass. 6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale
fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una
nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da
disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione
(ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto,
delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede
interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla
coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente
richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e
la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come
violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto
dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le
sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa
di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al
giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o
giuridici. A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che
l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c.,
(norma c.d. elastica) compiuta dal giudice di merito - ai fini della
individuazione della giusta causa di licenziamento - mediante riferimento alla
"coscienza generale", è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la
contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad
una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una
specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli
"standards", conformi ai valori dell'ordinamento esistenti nella realtà
sociale.
Al riguardo deve rilevarsi che la decisione impugnata dal lavoratore sotto
tale profilo appare rispettosa dei principi di diritto enunciati in materia da
questa Corte, in quanto il giudice dal gravame ha dato conto delle ragioni poste
a fondamento della stessa, valorizzando, ai fini della valutazione della gravità
della condotta, non solo e non tanto l'allontanamento temporaneo dall’abitazione
materna "quanto il fatto che …….. nel giorno del permesso ex art. 33 chiesto per
la giornata di venerdì 11 aprile, alle 7,55 sia partito con amici e valigia al
seguito, così mettendo fra sé e la finalità di assistenza del permesso una
distanza e una previsione di rientro non prossimo che rendono del tutto evidente
che il permesso .... è stato utilizzato per altra finalità, che la legge
garantisce con l’apposito istituti delle ferie". In tale modo il Nulli - come
condivisibilmente osservato dal giudice del merito - ha violato, attraverso
l’abuso del relativo diritto, la finalità assistenziale allo stesso connessa e
la condotta posta in essere è stata, pertanto, coerentemente ritenuta capace di
integrare anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale un comportamento
idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, sia perché le
eventuali convinzioni personali del ricorrente di potere fare affidamento in una
prassi consolidata o nella collaborazione di una badante sono dei tutto
irrilevanti in presenza di comportamento che ha compromesso irrimediabilmente il
vincolo fiduciario, sia perché la sospensione dell’attività lavorativa era
consentita, come chiarito in sentenza, solo per la finalità assistenziale
garantita dal permesso.
Peraltro, deve anche aversi riguardo al fatto che, come, affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte, l’intensità della fiducia richiesta è
differenziata a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della
posizione parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che
queste richiedono e che il fatto deve valutarsi nella sua portata oggettiva e
soggettiva, attribuendo rilievo determinante alla potenzialità del medesimo a
porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (cfr., tra le altre,
Cass. 10.6.2005 n. 12263).
Per tutte le esposte considerazioni, il ricorso deve essere
respinto.
Le spese del presente giudizio, in forza del principio della soccombenza,
cedono a carico del ricorrente, e vanno liquidate nella misura di cui al
dispositivo.